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La mia prima maratona
di Fabrizio Pisani, 10/04/2017

Pronti per lo start della Maratona

Pronti per lo start della Maratona

Sembra passata una vita da quando, sette mesi fa (precisamente il 3 Settembre), ho iniziato a correre per la prima volta: ero al Parco delle Valli nel quartiere Conca D’Oro di Roma, e credo di avere fatto tre km in venti minuti, alla fine ero piuttosto stanco. Oggi mi pare un Sabato così lontano, mi sembrano passati degli anni, anche se sono passati solo pochi mesi. In effetti, però, ho corso circa 700 km da allora, e quelli sì, che sono tanti!
Ho iniziato piano, piano come ogni volta in cui inizio una cosa mai fatta prima, un po’ come quando incontri una persona nuova al lavoro: sai che la frequenterai spesso, ma ancora non la conosci, quindi la studi, né hai rispetto, o forse anche un po’ di soggezione; condividendo spazi e momenti, incominci a vedere gli aspetti positivi della persona; ne rimani colpito per la facilità con cui si integra con te e con il tuo modo di essere. Si condividono progetti e obiettivi importanti, si superano assieme barricate che sembrano insuperabili, si sta nel fango e sotto la pioggia battente insieme.
Ecco, la "Corsa" è per me uno spazio mio in cui corro, sudo, ascolto la musica, misuro la mia performance con il mio immancabile orologio e, soprattutto, supero la fatica.
Già, la "Fatica" è il vero muro da superare, tutti i runner lo sanno: esiste una soglia che ognuno di noi ha e, se la superi, non la senti più ( almeno per un bel po’). Solitamente la mia soglia è mezz’ora, una volta “scollinato” quel momento, corro come se non ci fosse domani. Correre senza fatica all’aria aperta è una delle sensazioni più belle che abbia mai provato: è come se avessi buttato via dalle tasche dei pesi che fino a poco prima avevi.
Dicono sia la chimica delle endorfine prodotte dal nostro organismo che riduce la sensazione della fatica; bah? Chi lo sa? Per me è ogni volta un miracolo che si rinnova. Ho corso nella nebbia in Hyde Park, nelle pianure della Val Padana, sulle strade ghiacciate la mattina presto, sui Sanpietrini romani, sotto la pioggia, la mattina presto mentre albeggiava, insomma, pur di allenarmi, ho corso in tutte le condizioni che mi sono capitate. Follia o passione, lascio a voi il non facile giudizio.
Una cosa bella dello sport è “alzare l’asticella”: dopo avere raggiunto un risultato, se ne deve trovare un altro adatto allo stato di forma dell’atleta. Beh signori miei, la corsa permette una progressione di risultati che non credo abbia eguali nelle altre discipline sportive. Se ti applichi con costanza, pur partendo da un livello modesto come il mio, ti consente uno sviluppo della prestazione prodigioso! In pochi mesi passi dalla breve corsetta al parco sotto casa ai dieci km e, se insisti, anche oltre. Insomma c’è speranza per tutti.

Un’altra caratteristica particolare della corsa è il rapporto con il tuo corpo: non senti solo le emozioni proprie degli sport di resistenza, ma impari anche ad ascoltare i suoni del corpo. Il primo che senti, in realtà, è quello dei vestiti che sfiorano il tuo corpo o i tessuti stessi che si toccano, tipicamente la maglietta o i pantaloncini. Ma si tratta solo dei prodromi di ciò che senti più avanti, quando l’orecchio si affina e comincia a sentire altre cose: è come quando impari una nuova lingua e ti fanno ascoltare una canzone in lingua originale, all’inizio non capisci nulla. Ma se ti applichi, e dopo qualche tempo provi a riascoltare quello stesso brano, senti molto di più!
Allo stesso modo, dopo qualche tempo che corri, cominci ad ascoltare prima il tuo respiro e poi, anche il tuo cuore. Se corri come il vento che soffia, senti la necessità di ascoltare tutte le parti del tuo corpo. Una macchina che va al massimo delle sue potenzialità deve essere monitorata, e nella corsa sono tre i motori da tenere sotto controllo: il cuore, la testa e le gambe.
Si corre con le gambe, come è ovvio pensare, e devi sentire se qualche parte si sta affaticando, come nel caso di un tendine o un muscolo infiammato. Proseguire, se c’è qualche cosa che non va, non è solo stupido, ma anche pericoloso.
Si corre con il cuore e i polmoni, che per un corridore sono un’unica cosa. Bisogna rallentare, se il corpo ti chiede di recuperare, dopo riprenderai il ritmo precedente o anche meglio. In certi momenti si può strafare, ma quando una vocina ti chiede di riprendere fiato, fallo e basta. Ci vuole pazienza.
Infine si corre con la testa, che è l’ultima cosa che comincia ad allenarsi, perché è necessario correre distanze importanti per cominciare a fare i conti con se stessi. Questo è l’aspetto più affascinante della corsa, perché potresti avere energie sufficienti a correre per lunghe distanze, ma non hai la testa per gestire un fisico affaticato che deve fare ancora quindici kilometri per chiudere la gara. La fase più difficile e affascinante della gara è quando le energie vanno gestite con parsimonia; senti la fatica che ti assale e il traguardo è ancora lontano: non conta se hai un amico vicino a te che corre e ti sostiene, sei solo! Devi trovare le forze mentali per recuperare le energie dal fondo più nascosto della riserva del tuo serbatoio di benzina.
Ecco, dopo circa sette mesi di corse, ripetute, tempo run, corse progressive, lunghi lenti, corse da dieci km e una mezza, eccomi qua, iscritto alla Maratona di Roma, perché? Beh, per aiutare il mio caro amico Patrizio, nonché mio allenatore, a fare la Maratona. Insomma, puoi lasciare forse da solo ad affrontare la sua prima quarantadue colui che ti ha iniziato alla corsa? Certamente no!
I patti sono chiari: farò fino a venticinque, massimo trenta kilometri e poi mi fermerò. L’importante con gli amici è essere chiari fin dall’inizio, insomma ti aiuto a fare un pezzo… il problema vero è tenere fede a se stessi, ma chi lo sapeva? Io, no.

È il giorno della gara. Sveglia alle sei della mattina, poco prima che suoni la sveglia, ho dormito una favola tutta la settimana. Prima della Roma-Ostia non era andata così bene, un segno del destino? Per niente, l’esperienza ti aiuta a gestire la tensione nel periodo precedente alla gara.
Mi alzo, faccio il più piano possibile per non svegliare i miei tre figli e mia moglie, sgattaiolo dalla camera alla cucina, come un ladro che ha già preso quello che doveva.
Faccio colazione con pane caldo e miele, mi sembra ancora di sentire l’odore del pane uscito dal forno. Mi lavo, faccio la barba e vado verso la borsa, pronta dal giorno prima, piena di tutto ciò che potrebbe servire. Metto i pantaloncini corti, la canotta con il pettorale, i calzini da corsa, la tuta e la giacca. È il momento di stabilire il contatto con gli altri matti, prendo il cellulare e mando un messaggio sulla chat; subito si seguono varie risposte del tipo: sono quasi pronto, mi sto lavando, oppure da quelli che non parteciperanno all’evento: buona fortuna, dateci dentro, daje, etc… La comunità dei runner è formata da persone molto generose e altruiste, chissà, magari quando vanno alla riunione di condominio diventano dei mostri come la maggior parte delle persone che partecipano a questo tipo di simposi.
Esco di casa, accostando la porta di casa delicatamente, non chiamo l’ascensore, ma prendo le scale cercando di non rompere l’anima ai miei vicini, visto che è domenica mattina ed è presto, circa le sei e cinquanta.
In un attimo con la moto percorro Prati Fiscali e poi la Salaria fino alla casa di Patrizio, dopo poco anche lui è giù, comincia a formarsi il team. Leggo un po’ di tensione e di divertimento nei suoi occhi e gli dico: “dai che oggi, comunque vada, è una giornata stupenda, faremo la corsa più lunga della nostra vita”, mi risponde sorridendo: ”hai ragione, ti seguo”.
Si parte verso il Colosseo, partenza della gara. Un luogo particolare per me, visto che mi sono laureato proprio da quelle parti (anche mio padre), è quindi un pezzo di vita quella parte della città, sarà un buon auspicio, forse…
Parcheggiamo proprio vicino alla facoltà di Ingegneria; quante giornate a seguire lezioni, sostenere esami, rincorrere professori, studiare nella biblioteca Boaga. I ricordi mi aiutano, a volte, a capire quante cose ho fatto in passato, mi danno fiducia nel futuro. Questa domenica, ancora io non ne sono consapevole, ma me ne servirà molta.
Il percorso di ingresso è molto lungo, ci fanno fare un giro di “Beppe” che non finisce più, ma alla fine incontriamo anche lo Sciavicco, l’esperto della giornata, è alla seconda Maratona. Baci e abbracci di rito, battute sulle donne e poi via ai camion dove lasciare i borsoni.
Un’altra cosa particolare di queste competizioni è l’organizzazione: non sembra neanche Italia, più la Svizzera, eppure sono tutti italiani quelli che la organizzano. L'Italia, se non pensa al posto fisso o ai diritti sindacali ogni tre per due, produce delle cose incredibili.
Ci spogliamo e consegniamo gli zaini, qualche rito del caso come la fila ai bagni, e poi ci incamminiamo verso le griglie di partenza. Ancora non ci posso credere, qualche mese fa non sapevo nulla delle corse e ora stavo andando verso la griglia di partenza della Maratona di Roma in canotta e pantolincini, come un esperto runner.
Infiliamo l’ingresso di quelli che non hanno dichiarato il tempo effettuato all’ultima Maratona (come avrei potuto?), ovvero quello degli ultimi ma per me non fa alcuna differenza.
Lo sport è forse uno dei pochi giochi che rimangono agli adulti, quando smettono di essere bambini. Cerco di viverlo come lo vivrebbe un bambino di quarantatre anni, mi lascio andare all’entusiasmo e alla voglia di divertirmi. Ogni tanto ci vuole.

Stiamo in mezzo a sedicimila partecipanti provenienti da tutta Europa, poco meno della metà è straniera: inglesi, spagnoli, polacchi, tedeschi, tanti francesi e tanti altri. L’adrenalina comincia a salire per la partenza imminente, per ingannare l’attesa decidiamo di fare un video per un altro del gruppo che purtroppo non è potuto venire: Giorgio, un altro ragazzo che mi ha accolto a braccia aperte e che ringrazio tanto; devo dire che mi è mancato moltissimo. Video inviato tramite il solito what'sapp, sarà felice che abbiamo pensato a lui in questo momento.
Le prime due Onde sono ormai partite, tra qualche minuto tocca a noi, siamo tutti in piedi, orologi sincronizzati sui satelliti GPS, io ho anche il cardiofrequenzimetro, la fascia elastica sotto il petto durante la gara mi aiuta a tenere sotto controllo la respirazione del diaframma nelle fasi in cui recupero il battito cardiaco.
Pochi attimi, istanti, boom si parte, è iniziata! L’inizio non è come te lo immagini: si comincia a camminare con passo lento, si arriva sul traguardo, ho il tempo di vedere anche la sindaca sul palco delle autorità, capelli neri e statura piccolina (esattamente come sembra in tv); poi la strada si allarga all’improvviso e la folla si distende in ogni spazio disponibile, a quel punto si comincia a correre, non forte, ma si corre.
Stai a Piazza Venezia, una dei luoghi storici di Roma: il Milite ignoto, il balcone di Mussolini, Via del Corso, etc. La gente chiacchiera durante questa fase, e così per diversi kilometri, probabilmente per ingannare la tensione che si sta ancora sciogliendo. I muscoli sono freddi in questa fase della gara, ovviamente, io seguo i miei due top runner controllando la mia velocità dal Garmin sul polso; fin da subito devo usare la testa per dosare quelle poche energie che ho per fare questa gara, ma che sto dicendo, ne devo fare solo una parte! Comunque ho fatto un’ottima settimana di “scarico”, ho mangiato bene e ho dormito bene, meglio di così non potevo fare, sono al massimo, quindi serenità!
Mentre penso, siamo già al terzo kilometro, l’Aventino, un primo imprevisto: un pedone attraversa e fa cadere a terra il podista accanto a me, si schianta sulla strada; sembra la scena della Maratona di Atene, quando il podista in testa alla gara viene investito da un pazzo religioso, e solo l’intervento del pubblico gli consente di staccarsi dall’uomo e ripartire. Dentro di me penso:”mo’ glie’ mena”, e invece no, si alza aiutato da altri e riprende a correre, come se niente fosse; bravo, altra lezione per me: concentrati su quello che devi fare, ignora tutto il resto, mi sarà utile tra pochissimo, anche se non lo so ancora.
Secondo imprevisto della gara, la pioggia e non la pioggerella che ti bagna la testa e ti rinfresca, no! Le catinelle vere, i fulmini e i lampi, dio mio! Tutta la settimana aveva tenuto e proprio oggi doveva rilasciare una tale furia? Mi rendo conto che correre con la pioggia forte sarà più difficile, aggiunto al fatto che corro una distanza che non ho preparato potrebbe indurmi a desistere. In realtà succede una cosa strana: il fatto che sia ancora più difficile mi esalta, perciò non abbasso la velocità di crociera e proseguo. Una volta a Ostiense passiamo sotto ad un ponte e proprio in quel momento echeggia forte un tuono che fa uno strano effetto di rimbombo, tutti esclamano qualcosa come fossero una voce sola. La fiumana umana si autosostiene di fronte alle avversità impreviste della gara, un curioso meccanismo sociologico, gli esseri umani nelle disgrazie si alleano.

Credo all’altezza di via Guglielmo Marconi la pioggia forte smette, lasciando il posto ad un pioggerella più leggera. Qualcuno lassù ci ama, evidentemente.
Terzo imprevisto. I miei top runner cominciano ad andare troppo veloce per me e, all'altezza di via del Porto Fluviale, prendo la difficile decisione di lasciarli andare. Ma non dovevo accompagnare Patrizio per metà gara e poi ritirarmi? Sento che non ce la farò ad arrivare a metà, se continuo così. Li lascio scappare, ora sono solo e senza musica, la gara cambia completamente: non più una corsa di gruppo, ma una corsa solitaria in cui non so bene quale obiettivo pormi. In una corsa bisogna avere ben chiaro cosa si vuole fare, soprattutto se è così lunga, la decisione deve essere rapida, perché devo decidere l’andatura. Voglio fare venticinque kilometri, quattro più della mezza, più che dignitoso. Arrivati al km dodici, via Marmorata, tutto è ormai chiaro: sono solo, la decisione è presa, i muscoli sono ben caldi, morale ottimo, è la parte migliore della gara, la pioggia ha anche smesso di infastidirci. Insomma, ci sono tutti i presupposti per arrivare al quartiere Prati, altra zona della città a me molto cara. Ho lavorato diversi anni in Via Crescenzio, anni stupendi. Oltre al lavoro, ricordo le persone, i pranzi in Via del Mascherino o meglio ancora il panino consumato in Piazza San Pietro, in uno degli scenari più belli del mondo, che città!
In effetti così è, fino a Piazza Mazzini va tutto bene, mangio e bevo alle stazioni di sosta, e corro senza alcun problema.
Piazza Mazzini corrisponde proprio alla distanza della mezzamaratona, mi dico soddisfatto e mi sento bravo, penso di poter raggiungere senza troppi sacrifici la stazione dei trenta kilometri. Errore! Stavo percorrendo distanze mai percorse prima, non potevo sapere come avrebbe reagito il mio corpo. Comunque l'illusione prosegue fino a Ponte Duca D’Aosta, di fronte allo Stadio Olimpico, kilometro venticinque. Lì, il mio fisico entra in crisi, sento che non riesco a proseguire alla stessa andatura. Per non aumentare il battito cardiaco, devo prendere un'andatura più lenta, non è grave, l’importante è arrivare a trenta kilometri. Proseguo, quindi, alla nuova andatura senza farne un dramma, d’altra parte mi sto muovendo su una frontiera ignota, per me. Il tragitto si sussegue senza particolari problemi, anche se comincio ad avere qualche dolore ai polpacci. Per arrivare ai Parioli dal Lungotevere c’è una breve ma micidiale salita, molti la fanno camminando, io temo di cambiare nuovamente il ritmo. Temo il tracollo, stringo i denti e corro, lentamente, ma corro. Finalmente ai Parioli e poi al Villaggio olimpico, tra poco avrò raggiunto i trenta kilometri. Sento la gioia che mi scorre nelle vene, come se avessi fatto una trasfusione, fino ad oggi avevo fatto al massimo ventuno kilometri. Comincio a pensare a come trovare “le scope”, i mezzi che ti riportano alla partenza in via dei Fori, qualora il podista decida di ritirarsi. Finalmente arrivo alla stazione tanto agognata, mangio e bevo camminando, poi vedo gli altri che ripartono e mi dico che un kilometro in più non cambia nulla, decido di farlo.
Falso! So di ingannarmi, so quello che voglio fare, ma non ho il coraggio di ammetterlo, forse per paura di crollare tra poche centinaia di metri.

Dopo la bandiera dei trentuno, escogito un altro stratagemma per ingannare la mia mente, evidentemente non troppo lucida e ben disposta ad accettare mezze verità a buon mercato: decido di andare avanti di kilometro in kilometro e di vedere dove finisce la benzina. Lungo viale Tiziano mi metto a parlare con un cinquantacinquenne israeliano, appositamente venuto nella capitale per l’evento. L’episodio, seppur piccolo, mi ricarica le batterie dell’entusiasmo che, per la verità, non sono mai state scariche.
L’andatura era stabile, l’umore ottimo, la pioggia non c’era più, sembrava un film già scritto, ce la potevo fare, ma ero solo al km trentadue.
Dicono che esista un muro intorno ai trenta kilometri, probabilmente dovuto alla fine delle scorte di zuccheri; solo chi è abituato a fare i lunghi sa utilizzare certe riserve di glicogeno che non siamo abituati a richiamare. Tuttavia in letteratura nessuno può dirti quando arriverà il tuo muro, il mio è arrivato a Viale del Vignola.
Quella strada non è una strada come le altre per me, mio padre aveva il suo studio, quando ero piccolo. Spesso sono andato da lui da piccolo; i miei ricordi, sebbene lontani nel tempo, sono nitidi: era un giovane professionista che lavorava tantissimo; era la fine degli anni settanta. Ebbene, dopo trentadue kilometri mi sono fermato, il polpaccio sinistro mi faceva male, faccio circa un minuto di stretching e va meglio. Cosa faccio? Per un attimo penso di mollare, dopo tutto ho fatto una grande prova, cosa ci sarebbe di male a fermarsi? Niente, però riparto lo stesso, provo a fare un altro pezzetto, magari migliora. Imbocco il lungotevere, e le bandiere delle stazioni si susseguono l’una dopo l’altra; mangio e bevo con attenzione ad ogni tavolo senza fermarmi mai, e così arrivo al km trentacinque. Non si può interrompere una Maratona a sette kilometri al traguardo, così dichiaro a me stesso quello che ho sempre pensato, ma mai ammesso, fin dall’inizio della gara: la voglio finire e portare la medaglia ai miei figli che la desiderano.
All’altezza di Ponte Umberto si entra nuovamente in centro e non se ne esce più, ormai il serpentone sta finendo, e lo sa anche la gente che ti incita sempre più forte.
Un altro imprevisto, però, sta per presentarsi: eravamo tutti ormai asciutti dopo circa venticinque kilometri senza pioggia, ma le previsioni avevano detto pioggia con carattere di rovescio. Ricorderò sempre quella secchiata lunga quattro kilometri che qualcuno mi ha gettato nell’ultimo tratto.
Avevo superato la pioggia iniziale, la maratona in solitaria, i crampi al polpaccio, la fatica, la fame, le salite e ora fiaccato da tutte queste prove c’era ancora l’acqua, e che acqua!

Correndo per Via del Corso la pioggia è fortissima, vacillo, da un po’ non vedo più le bandiere delle stazioni intermedie, ho un momento di confusione e chiedo quanto manca ad un signore vicino a me: “siamo a trentanove, bisogna salire al Quirinale”, "al Quirinale?" mi venisse un colpo, significa una salita terribile. Per fortuna non era proprio fino al Quirinale, comunque c’era una salita.
Qualsiasi strategia a quel punto della gara non esiste più, corri e basta, sperando di averne a sufficienza. Il tratto da piazza del Popolo in poi è un po’ confuso, arrivato a piazza di Spagna, qualcuno tra il pubblico urla che abbiamo appena superato i quaranta! Mi rincuora un po’, ma la stanchezza ormai è immensa, non credo di essere stato mai così stanco. Mi vengono in mente quelle persone che sono sempre stanche, anche se non fanno nulla, fate una Maratona, allora saprete fino in fondo il significato di questa parola.
All’imbocco della galleria di Via Milano (ho vissuto un anno in quella via al tempo del servizio civile, ricordi bellissimi mi tornano alla mente e alleviano un po’ la fatica) camminano quasi tutti, io sono fra i “quasi”. Anche se fiaccato, stanco, sudato, bagnato dalla pioggia che non sento più, non voglio camminare, ma corro. Esattamente al kilometro quarantuno si scollina, da lì in poi è discesa fino alla fine. Corro, corro e poi corro fino a Piazza Venezia, giro a sinistra, poi di nuovo a sinistra e poi vedo una cosa bellissima: il traguardo con il display digitale; due inglesi accanto a me quasi si commuovono e io con loro, non posso crederci, ce l’ho fatta!
Stanco, sotto la pioggia battente, un polpaccio dolorante, zoppicante, ora ho anche freddo, ma sono oltre il finish della Maratona di Roma. Poco dopo controllerò il tempo ufficiale su TDS che mi dirà 4h16’54’’, un tempo fantastico considerando che non ero sufficientemente preparato, che era la prima Maratona, che c’era la pioggia. Quel tempo, qualsiasi esso sia non dirà nulla delle emozioni che hai vissuto durante la gara: la fatica che ho superato e che poi è ricomparsa dopo i venticinque kilometri; i dolori che senti alle gambe; la paura di non farcela che mi ha accompagnato per tutta la gara, che si è trasformata in una tensione positiva che mi ha dato lucidità nelle scelte; la gioia dell’arrivo, una soddisfazione paragonabile ad un esame importante all’università, perché fare una Maratona è difficilissimo! Il piacere di condividere con i tuoi amici una simile avventura. Patrizio, poco dopo, mi dirà che si è commosso alla notizia che anche io ce l’avevo fatta. Quando ho ripreso possesso del cellulare, una volta a casa, è stato un susseguirsi di messaggi e telefonate incredule.
Che dire della Maratona: non è una gara come le altre, ma una sfida sui nervi, la forza, l’autocontrollo, e in ultimo con te stesso. È una gara al limite delle capacità umane, ma allora perché farla? Perché siamo un po’matti, i maratoneti sono tutti un po’ folli, almeno io.
Oggi mi sento un Maratoneta, un pazzo.


Il rito del ritiro del pettorale al Marathon Village

Il rito del ritiro del pettorale al Marathon Village

Gara: Maratona di Roma (TOP) (02/04/2017)

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