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1* Trail del Matese - Montagne belle sopra e... sotto
di Ettore Golvelli, 16/09/2014

Tra la Campania e il Molise c'è un posto ancora intatto dove, chiudendo gli occhi, puoi ritrovarti con te stesso e con il mondo intero, e poi, quando li riapri, ti perdi tra pascoli e prati, radure e foreste, vestigia storiche e memorie geologiche, sorgenti cristalline, laghi placidi, tumultuosi torrenti.
Questo posto è il Matese, un massiccio montuoso che si estende per oltre sessanta chilometri, a cavallo tra due regioni tra loro molto diverse. Insomma il punto d'incontro di due culture, un punto di contatto e di confine tra genti e territori ed economie, tra la opulenta civiltà della pianura e la severa vita della montagna.
Eh si! Il Matese. Un luogo incantato, una conca verdeggiante ed intatta che, attraverso i suoi profondi solchi, scavati e modellati da acque millenarie, sembra voler protendere lunghe braccia verso una fitta di sentieri che s'inerpicano dalla vallata, quasi a voler accogliere, con un affettuoso abbraccio, chi vi accede da quella direzione.
Ed è proprio questa la sensazione che si prova quando si arriva a Campochiaro, piccolo comune del Molise inglobato in una delle più grandi WWF d'Italia: l'Oasi di Guardaregia, famoso anche per gli spettacolari fenomeni carsici con canyon e grotte che sono fra i più profondi abissi d'Europa.
Ma Campochiaro è famosa anche perché è culla d'arte e d'artigianato. La sua terra e i suoi alberi, elementi semplici, forniscono la materia prima per l'artigianato locale, basato sulla ceramica, la pietra e il legno. Tradizioni che affondano le radici in tempi remoti e che impreziosiscono un territorio già di per se ricco di sorprese piacevoli.
Girando per le stradine della zona storica del borgo, mi rendo conto che Campochiaro affonda le sue radici nel passato. Infatti sembra che ogni popolo ed ogni epoca hanno lasciato le proprie testimonianze sul territorio del paese: dai Sanniti ai Romani, dai Saraceni ai Longobardi, dai Normanni ai signori feudali e rinascimentali, dal secolo dei Lumi al Romanticismo, e via via fino ai giorni nostri.
Infatti La "Rocca", il Santuario Sannitico di Ercole Rani, le necropoli Longobarde e tutti gli edifici religiosi sono dei chiari segni del passato e rappresentano, senza alcun ombra di dubbio, elementi caratterizzanti di questo splendido borgo del Molise.
Ma Campochiaro produce anche squisitezze che sono il fiore all'occhiello del paese:
- il miele, ottimo e profumato, che nasce dalle fioriture dei campi, dalle acacie e dai castagni;
- il vino, prodotto quasi ovunque in abbondanza;
- i formaggi, ottimi, a base di latte di pecora e di mucca;
- le marmellate, ottime quelle di fichi, albicocche, ciliegie e prugne;
- le castagne, squisite per caldarroste, usate anche per il castagnello, un saporito liquore locale;
- le peschiole, un raffinato prodotto a base di pesche dalla grandezza di un oliva.

La giornata è perfetta: un tiepido sole scalda piacevolmente le facce allegre dei coniugi De Angelis e la sempre allegra Micaela Testa. E l'allegria aumenta quando incontro un mio vecchio e leggendario amico, scrittore, poeta e cantore del Matese, che allieta Micaela con aneddoti ed indiscrezioni sul bel libro redatto da lui e la moglie, sui fiori del Matese.
Dopo questo piacevole incontro ci "intruppiamo" nel centinaio di podisti che scalpitano sotto il pallone della partenza e, finalmente, si parte con un apripista eccezionale: l'atleta azzurro campione europeo di corsa campestre Andrea Lalli, idolo locale originario di questa magica terra.
Lo spettacolo della partenza e straordinario: aiutato da un clima speciale che solo il Matese sa offrire, Campochiaro per un giorno è invasa da un fiume variopinto di magliette, scarpette e pantaloncini che, in pieno clima festoso, si snoda dalla piazza principale verso le strette e magiche viuzze del centro. E mentre la strada sale sempre di più, i meno veloci come me possono girare lo sguardo qua è la per assaporare la magia che emanano le mure di questo splendido borgo, con i suoi vicoli un po' calcati, soffocati dalle case ma senza mai perdere l'atmosfera particolare. Adesso il mio sguardo va in alto, verso la dolce montagna che ci attende con le sue tinte color pastello annunciando un autunno che comincia ad avvicinarsi.
Si lascia il paese e dopo un breve tratto di strada asfaltata ci si immette subito sul primo sentiero CAI che attraversa un antico ed avvolgente castagneto che ci accompagnerà per circa un chilometro.
Maria Bianchetti saltella leggera su roccette e sopra le radici affioranti dei secolari castagni della Defenza mentre il povero Braf arranca dietro. Micaela alterna guizzi felini da pantera quando è raggiunta da qualcuno a passi di Slow Fox quando rimane da sola: presumo che bisogna tenerla d'occhio....
Lasciato il castagneto e dopo aver superato una piccola radura dove è' in fase di preparazione la procedura di ripopolamento del cervo sul Matese, si addentriamo nella prima vera foresta del percorso di oggi.
Bastano solo poche decine di metri per capire che ci troviamo in un posto speciale, straordinario. Anche le mie compagne di viaggio sono stupite.
Io credo che quando arrivi in questo tipo di bosco ci sono delle emozioni che la lingua non è in grado di descrivere, sensazioni che non trovano nelle parole la completezza che solo il cuore potrebbe esaurire. E questo succede quando, d'improvviso, ci si trova di fronte alla maestosità di un bosco; quando un gheppio o un falco o addirittura un aquila si materializzano in un guizzo assassino; quando il lamentoso gufo saluta la fine del giorno; quando, fuggevoli come il pensiero, gli occhi di una volpe, vi scrutano dal limitar della selva. Una volpe? Forse. O no.
All'improvviso il bosco dirada dal lato sinistro della dura salita. Una piccola finestra naturale permette di affacciarsi giù, verso uno spettacolare orrido creato da un turbinoso e capriccioso fiumiciattolo (Torrente Quirino) formando le più belle e spettacolari gole di tutto il Matese. Lunghe circa quattro chilometri le gole del Quirino offrono uno scenario incomparabile fatto di luci ed ombre, tra pinnacoli e superbe pareti di roccia, alte in alcuni punti più di duecento metri.
Dall'altro lato dell'orrido, Guardiaregia, un borgo aggrappato alle vertiginose gole del Torrente Quirino, con le abitazioni che poggiano l'una sull'altra integrandosi perfettamente con l'ambiente circostante. Un tempo erano rinomati i suoi preziosissimi artigiani, "i pignatari", fabbricanti di stoviglie d'argilla, uomini di altri tempi, figli di questa terra povera, difficile ma straordinariamente bella.
Mi giro indietro e vedo giù Micaela in leggera difficoltà. Si attarda in modo preoccupante. Questa montagna e piena di "lupi" e quando vedo il primo bipede mannaro annusare i polpacci della mia gazzella preferita, decido che la mia corsa su queste splendide montagne sarà tutta in sua compagnia.
Adesso dopo una ripida discesa si attacca finalmente la salita più dura, la più lunga e la più ripida del percorso. I primi due chilometri sono i più duri, con pendenze tremende ma alla fine un affascinante ricompensa ci attende: l'affaccio sul balcone naturale della "Torretta", con una vista mozzafiato su Monte Mutria, Canalone Cusano, Serra Macchia Strinata, il canyon del Quirino e il suo ultimo ponte ed infine la magnifica faggeta della zona "Tre Frati". E si! I mitici tre frati già citati in altri resoconti: la leggenda locale ci racconta che questi tre vagabondi col saio giravano anche sui monti del Matese cercando qualcosa che non trovarono mai perché in un inverno particolarmente rigido trovarono la morte assiderati sulle gelide montagne dell'Abruzzo.
Dopo un tratto con la visuale che si perde sulle bellezze della riserva, per una comoda carrareccia, si giunge una prima volta a Valle Uma, percorrendo un sentiero ancora in salita ma meno dura. Micaela mi segue silenziosa ma tranquilla e la fatica della tremenda salita sembra essere scomparsa dalle sue gambe che corrono freneticamente sulle roccette dell'antico tratturo che stiamo percorrendo. Un tracciato antichissimo, lo si deduce dalla cura delle pietre accumulate ai lati del sentiero che descrivono un po' la vita dei pastori che periodicamente passavano da queste parti. Una piccola radura incorniciata da pietre accumulate a delimitare un provvisorio recinto (sembra un area di parcheggio sulle autostrade) mi ricordano i recinti dove alla sera, dopo una lunga camminata su sentieri e mulattiere, i pastori parcheggiavano le greggi per la notte, per ripartire la mattina dopo verso vallate più erbose per le loro pecore.
I pastori del posto sono i veri protagonisti di queste splendide montagne. Forti di antica esperienza, tramandata da generazioni, quassù preparavano con grande abilità il formaggio pecorino e la meravigliosa e finissima ricotta che nel suo tremulo, fumante e morbido candore veniva delicatamente riposta nelle tradizionali "fuscelle" è conservata gelosamente.

Via via che ci si spinge più un alto s'incontra un bosco diversificato, eterogeneo. Nelle zone molto assolate sono presenti acero, rovella, frassino, corniolo, maggiociondolo con un sottobosco molto ricco di piante erbacee di media altitudine. Nelle zone più folte si notano salici (salterella), trifoglio fibrino di montagna, ranuncoli. Molto affascinante è l'aspetto vegetazionale delle cavità ipogee che presentano sugli orli esterni ancora latifoglie e poi, man mano che la luce scompare nel fitto bosco, si notano capelvenere, felci, muschi, licheni, agrifogli.
Ma quello che affascina di più in questi posti è la strada dell'acqua, anche se lungo il percorso ne vedremo ben poca.
Placida quella dei laghi, pura e argentina nelle sorgenti, impetuosa nei torrenti, l'acqua, nel Matese, non è mai la stessa ed assume molte forme. È un viaggio straordinario quello che si dipana fra le doline e le pieghe di una natura così prodiga di sorprese. Si, sorprese. Perché il Matese è terra carsica e a volte, all'acqua, piace prendere strane strade e perdersi nelle profondità ancestrali della terra.
E poi non c'è solo un Matese scoperto, raggiungibile, facile da vedere perché sotto gli occhi di tutti. C'è anche un Matese nascosto, sfuggente, rude, anche scontroso: è il Matese del sottosuolo, delle grotte e delle forre, della terra che mostra il suo lato più forte e selvaggio.
Nei secoli l'acqua ha scavato, arrotondato, modellato; come uno scalpellino lento e paziente ha disegnato nel calcare del Matese morfologie uniche nel loro genere. Qui, nelle quote più basse, giunge l'acqua inabissatasi in alta montagna e porta con se la storia e la traccia del proprio lento lavoro di erosione.
E così nascono le grotte, matrone indisturbate, che affondano le proprie radici nel buio della montagna. Negli abissi carsici, nelle forme che essi contengono, nei depositi e sedimenti, nelle stalattiti e nelle stalagmiti, nelle colate di calcite è registrato il passato del Matese. Nelle grotte il tempo scorre lentissimo, le forme sotterranee sono quasi immutate. E per questo che gli ambienti ipogei contengono la chiave per comprendere la storia e l'evoluzione anche del paesaggio esterno.
E così emerge, tra le ottanta grotte rilevate e studiate quassù, il "Pozzo della Neve", la Signora del Matese.
È una grotta famosissima tra gli speleologi di tutta Europa. Con una profondità di 1048 metri dall'ingresso, è stato il primo abisso italiano a superare la mitica soglia dei mille metri di profondità.
A poca distanza si apre un altro mastodonte, la "Sfonnatora Tornieri" meglio nota come Abisso Cul di Bove, esplorato fino a 906 metri di profondità, solo perché un sifone molto stretto, perennemente allagato, impedisce di proseguire anche con l'ausilio delle bombole.
Li sotto, a quelle profondità, l'ambiente è immutabile, perennemente avvolto da un buio assoluto. Li l'orologio non ha senso perché percorrere una grotta equivale a compiere un viaggio nel tempo. E sul Matese è un viaggio possibile.
Adesso sono fermo sull'ingresso del Pozzo della Neve a guardare ammirato questo "buco" di una quindicina di metri, quelli visibili, mentre oltre, un buio totale senza fine. Chiamo Micaela per farglielo vedere. Lei viene, titubante, uno sguardo e via per proseguire sul sentiero ancora in salita. Io invece sono quasi ipnotizzato da questa ulteriore bellezza di queste montagne; un apertura naturale per sentire il respiro di questa montagna che non finisce mai di stupire, meravigliare, ammaliare.
Raggiungo Micaela ed insieme affrontiamo l'ultimo tratto di salita che ci porterà sul posto più alto del percorso: la Costa del Carpine, dove si può ammirare un panorama stupendo a 360 gradi.
E da quassù il Matese si presenta grandioso, in un alternanza di creste dentellate e dirupi inaccessibili, di lunghi pianalti, profondi valli e balze che rompono la china dei monti, di gole strette e pareti verticali e bastioni imponenti, di monoliti enormi ed infine, di selve rigogliose e prati smaglianti di colori.
Monte Miletto (2050 m.), La Gallinola (1923 m.), Monte Mutria (1823 m.) sono le cime più alte del Matese e li sotto, da migliaia di anni, piante ed animali vivono insieme colonizzando una grandissima quantità di ambienti bellissimi che la bestia umana tende sempre a distruggere.
Questi sono monti fedelmente ritratti anche da grandi storici che ne hanno esaltato le caratteristiche principali, monti onnipresenti ma lontani, ammirati per bellezza ma temuti, nei secoli, per asprezza dei paesaggi e per... i briganti.
E si! I briganti. Questi leggendari personaggi che fanno fanno anche parte della storia italiana, personaggi che stavano in un territorio dalla natura particolare, impressionante. Un territorio montuoso, ammantato di folti boschi, punteggiato di dirupi, segnato da forre profonde ed interrotto da valli strette e talvolta senza uscite. Insomma, un territorio idoneo all'agguato. Ne sanno qualcosa i Romani, nel corso delle guerre sannitiche; gli Svevi, gli Angioini, i Normanni. Anche i Borboni si imbatterono in queste "combriccole" di ladroni che "commesso il furto" si rinselvavano nei monti del Matese.
Combriccole che poi si organizzavano in bande, piccole di numero, che a volte si univano per colpi più audaci e temerari. Spietati, crudeli, senza pietà, per niente e nessuno.
Non ci riuscirono questi evoluti ed organizzati popoli a dissolvere questo fenomeno; ci riuscì invece un evento non di minore importanza, un evento doloroso della storia del nostro paese che ha segnato migliaia di famiglie italiane: l'emigrazione.
Infatti, alla lotta armata senza quartiere contro i soldati piemontesi, segui l'esodo di migliaia di italiani e di quelle masse abbandonate a se stesse tra le montagne , silenziose ma tenaci, che anno dopo anno andarono incontro al miraggio lontano di un avvenire migliore.
E così sparì il Brigantaggio, dai monti del Matese e da tante altre parti d'Italia...

Micaela.... Mi sono dimenticato di Micaela. Sarà già arrivata al traguardo..??. Invece dopo poche centinaia di metri la ritrovo che scende tranquilla, trotterellando con il suo vellutato passo da gazzella. La raggiungo e la sorpasso per guidarla giù verso la lunga discesa fino ad un altra valle incantata. Un dubbio mi assale. Lei mi ha aspettato o ... tutto quello che ho raccontato è durato solo pochi secondi? Mah!! Boh?
Il primo tratto di discesa lo si fa lungo il canale di Fosso Iacoferrato, con una pendenza dolce e un fondo non tecnicissimo ma che comunque richiede molta attenzione.
Si arriva finalmente nella spettacolare Valle Uma, circondata dai suoi faggi secolari, e salutati dagli allegri campanacci di mandrie di mucche e cavalli che pascolano tranquilli brucando la tenera erba che cresce quassù. Al centro, un pozzo rustico ed un abbeveratoio tutto in pietra: un piccolo capolavoro di "arte povera" che testimonia l'importanza del pascolo montano. Poco lontano dall'abbeveratoio due distratti pastori dormono placidamente sui tiepidi sassi che incorniciano il pianoro, riscaldati e coccolati dal tepore dei dorati raggi del sole di mezzogiorno.
Attraversando l'intera valle e percorrendo un comodo e panoramicissimo sentiero, si giunge su di un altra carrareccia che dovrebbe portarci a Fonte Francone, una sorgente perenne di acqua freschissima. Un antico tratturo contornato da giganteschi faggi che coprono tutti i rumori del mondo esterno.
E qui ragazzi, c'è un silenzio che è impossibile non ascoltare.
Un silenzio apparente , perché il silenzio della natura incontaminata parla mille linguaggi. I richiami degli uccelli, il gorgoglìo dei torrenti, lo stormire degli alberi, il battito della vita delle creature del bosco. E su tutte, il verde squillante di questo bellissimo pianoro dove anche l'uomo ammutolisce e si riappropria di un linguaggio antico quanto il mondo: il linguaggio della natura.
Micaela, dietro di me, chiede preoccupata perché non parlo più: e convinta che io ce l'abbia con Lei. La tranquillizzo dicendogli di non preoccuparsi perché io sto parlando, ma con me stesso e con il frusciare dei miei passi in un mare d'erba accecante.
Dopo aver tirato il fiato in questo tratto veloce e con pendenze leggerissime, su di una ottima e morbida carrareccia, abbandoniamo il sentiero principale per svoltare a destra ed intraprendere l'ultimo tratto in discesa, molto tecnica, su di un bellissimo "single track", fino ad arrivare al Tempio di Ercole Quirino, un posto magico, archeologicamente di rilievo assoluto.
Finita la discesa si arriva al paese dove ci attende l'ultima fatica: una rampa di scale in pietra che ci proietta al centro della piazza di Campochiaro, dove, dopo il pallone dell'arrivo, ci attende la festa.
Chapeau all'organizzazione, al percorso, alla gentilezza della gente del paese e a queste bellissime montagne sulle quali io ho il piacere e l'onore di abitarci.
Ciao a tutti.


Gara: Trail del Matese (14/09/2014)

SCHEDA GARA



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