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Matese Sky Race - Le montagne che incantano
di Ettore Golvelli, 12/08/2019

Il lago del Matese

Il lago del Matese

Siamo di nuovo sui monti del Matese, i monti dei briganti, delle acque, dei pastori, delle leggende, ma soprattutto i monti che ospitano il lago del Matese, un piccolo gioiello incastonato ai piedi dei grandi giganti di queste montagne: monte Miletto e la Gallinola.
Ci si ritrova tutti alla Falode, un grazioso agriturismo ai piedi del lago dove la variopinta banda di trailers si ritrova per la partenza per questa nuova avventura che prevede la scalata delle maggiori cime del Matese.
Si parte e dopo aver attraversato alcune tipiche fattorie del posto, stranamente popolate solo da mucche e pecore, si attraversano alcuni campi di grano ancora da mietere, ma appena scavalcato un dosso si presenta il primo spettacolo di questa indimenticabile giornata.
Appare un campo coltivato coperto di grano mietuto e tantissima gente. I contadini, alcuni con forconi di legno, sollevano i covoni alzando polvere sul campo arso, rovente; altri, ritti sui carri, affastellano i covoni e li impalano sui pali ritti sui carri. Di lato si vedono qua e là, sul campo mietuto, le schiene curve delle mietitrici che prendono le spighe per legarle con maestria antica. Una donna anziana sonnecchia all'ombra di un gigantesco albero, bimbi con brocche e bicchieri che girano tra uomini e donne che lavorano. Chiunque sia nato e cresciuto in campagna sa che questa è la storia delle più belle feste della campagna: la mietitura.

Adesso lascio la strada asfaltata e comincio a salire per un sentiero che si dirige verso la "grande montagna": monte Miletto. Dopo impegnativi tornanti sassosi il sentiero diventa particolarmente fangoso perché esso non è altro che il letto di una risorgiva copiosa. Le scarpe affondano nel terreno ma in compenso sono avvolto dall'estate. I colori delle piante sono di una bellezza struggente: i rossi, i gialli, i verdi si intersecano formando dei quadri bellissimi. I raggi del sole, che al momento ci stanno accompagnando, creano spettacolari rifrangenze sulle foglie bagnate. Sotto gli alberi alcuni funghi fanno capolino... saranno buoni? Non credo, anche da lontano si capisce ma comunque per me perfetti in queste immagini.
Uscito dal bosco lo spettacolo è mozzafiato. Sotto di me il lago del Matese, in alto le nubi si rincorrono con il sole donando al lago colori intensi: azzurro, acciaio... il rosso degli alberi "bellissimo", le montagne sono avvolte dalla nebbia che sale, e poi, velocemente, si dirada, e lascia intravedere i colori dell'estate in tutto il suo splendore. Poi si richiude ma filtrano i raggi che illuminano il lago. Che altro dire se non salire la montagna e lasciare che la natura mi avvolga in tutto il suo splendore.
Adesso la salita diventa più dolce e si immette in una piccola e graziosa vallata dove, anche da lontano, si intravede di già il rifugio dell'Esule.

Colori resi vivi da un magnifico sole estivo, il caldo mitigato dall'altitudine è un comodo tavolo all'ombra di un piccolo albero posizionato all'ingresso del rifugio. Questa è la versione estiva dell'Esule, col valore aggiunto dell'acqua che sgorga costantemente rinfrescando i frequentatori della zona: quadrupedi, bipedi o volatili che siano. E oggi anche i trailer. Qui sopra d'inverno s'imbianca, il candore diventa dominante e i colori vivaci devono cedere il passo alla stagione fredda, e tutto diventa omogeneo, ovattato; la letargia s'impossessa delle giornate e attraversare questi luoghi in solitudine rende perfettamente l'idea del nome della valle. Rifugio ed abbeveratoio sono simboli resi ancor più noti dalla leggenda in cui narra la sfortunata storia della principessa Jole, ma questa è una storia troppo lunga da raccontare.
Qualche cane abbaia forte, il timbro è di quelli cupi, non hanno nessuna voglia di essere amichevoli e non è il momento di fare feste, il lavoro da guardiano lo svolgono in maniera perfetta. Le vacche sono lì, alcune sdraiate, altre infastidite e non hanno nessuna voglia di familiarizzare con noi intrusi. In lontananza risuona profondo il suono di una galoppata: è un branco di cavalli che viene verso l'abbeveratoio per la quotidiana bevuta.
Scollinare sull'Esule e bagnarsi con le acque fredda dell'abbeveratoio mi genera solo brividi adrenalinici che mi inducono a finire la sosta e continuare l'ascesa del grande monte.



Lascio il rifugio, tiro qualche respiro e riparto per il colle del Monaco, a 1700 m. di altezza, passando per un sentiero mai tracciato e che si inerpica sulle rocce che risalgono la montagna. La pendenza è pazzesca e il mio passo è messo alla prova, è solo l'evolversi delle salita, che in misura direttamente proporzionale rimpicciolisce il minuscolo rifugio dell'Esule alle mie spalle, da carburante alle mie gambe e soprattutto al cervello.
Giunto in cima al colle traccio nel mio immaginario una via da seguire per arrivare alla base del Miletto. Questa montagna appare come una immensa piramide di roccia, dura, che s'innalza verso il cielo e io, ancora distante dalla sua base, posso solo subire tutto il fascino che la sua natura sa trasmettere.
Comincio a salire, con la testa alta a cercare di percepire se si riesce a vedere la fine di questa montagna, provando nuovamente a tracciare un percorso fuori dagli schemi, per ammirare da una parte differente la cima. È forse ho fatto una scelta equilibrata perché, tra pendenze e dislivelli, ho risalito la parete aiutandomi con le mani, piedi, bastoncini ed imprecazioni. C'è anche tanto sudore, tanto poco caro, che scende dalla fronte agli occhi, a rendere tutto più complicato.
In un ora sono su, a pochi passi delle croci disseminate qua e là in cima a quella montagna, sopra i duemila metri, e posso finalmente godere del vento che mi accarezza in questa calda giornata di luglio e del sole che di tanto in tanto corre a nascondersi alle spalle di una nube, consegnandomi alla frescura dell'ombra. Sono tutti segni  di un tempo che sta mutando ed io non devo indugiare ulteriormente; è così, dopo aver raggiunto l'anticima ed essendomi affacciato sulle sottostanti valli, mi devo obbligatoriamente apprestarmi ad una rapida discesa. Le condizioni meteo infatti sono precipitate in un attimo, imprevedibile come la natura della montagna, e in lontananza alcuni tuoni cominciano a far tremare il cielo che intanto si è scurito.

Secondo ogni manuale e soprattutto secondo il buon senso, non bisogna mai trovarsi  in cima ad una montagna come questa, priva di vegetazione è ricoperta solo di roccia, in caso di temporale. Ma quassù, a 2050 metri, è troppo bello sostare e guardarsi intorno. Da questa cima è visibile tutta la valle del Volturno, i monti Trebulani, il massiccio del Taburno, il Vesuvio, e i monti Lattari (la Costiera Amalfitana) e quella sorrentina. Verso nord-ovest lo sguardo spazia sul gruppo delle Mainarde, sui monti della Meta, sul massiccio della Maiella, sul Gran Sasso. Solo da questa cima si possono ammirare paesaggi mozzafiato. Dominare con lo sguardo tutto il Matese costituisce uno dei godimenti più grandi dello spirito e riassume le emozioni di questa giornata particolare. Perché su questa cima c'ero già stato in passato, passandoci la notte all addiaccio, in attesa dell'alba. Qui sopra, nelle ore antelucane, la luce si annunzia nel lontano oriente come una striscia sterminata di un bianco spettrale mentre ad occidente tutto è nero e brumoso. Il tramonto mostra il mar Tirreno e specie il golfo di Gaeta come una gran massa d'oro, finché tante sfumature di tinte vanno attenuandosi via via nel crepuscolo. Di notte, ai piedi della grande montagna, spicca la marea di puntini scintillanti che parla di paesi addormentati. Di notte non arrivano rumori. Il vento leggero (sempre presente) ha la meglio e in quelle serate fortunate prive di nubi è un piacere attendere l'alba guardando il miglior spettacolo possibile. Poi arriva l'alba, e colora l'Oriente di viola e di porpora finché, attraverso una fascia di nebbia, appare senza raggi il globo purpureo del sole, e sotto gli risplende per poco l'oro dell'Adriatico.

Ma adesso è ora di scendere. Qualche nuvola si rincorre fra i crinali e qualche altra mi rincorre nella discesa dandomi un piacevole sollievo dal solleone che imperava per tutta la salita. Lungo il tragitto meravigliose fragole di bosco fanno capolino tra i cespugli: hanno il sapore della mia infanzia ma non posso fermarmi a raccoglierle. In lontananza il continuo rumore dei campacci delle mucche e cavalli.
Finita la prima discesa adesso si deve risalire di nuovo per la seconda cima: la Gallinola.
Salgo piano piano in una pietraia tra rami spezzati ed arbusti, fino ad uscire di nuovo su di un piccolo altopiano assolatissimo ma in piano. Il caldo adesso è torrido, il sole picchia e salendo mi manca quasi il fiato. Ancora un breve altopiano e poi l'ultima salita in quota sul crinale fino alla croce della Gallinola (1936 m.). Credevo quasi di non farcela, sarebbe stata la prima volta, ma un passo alla volta arrivo in cima. Lo spettacolo è magnifico, una sensazione immensa di libertà e di vita che ti avvolge. Sulla cima di fronte un segnale che delimita il confine tra Campania e Molise. Per diversi anni la cima è stata contesa tra le due regioni e poi grazie a Giulia D'Angerio e Carlo Pastore (mio grandissimo amico), entrambi fondatori del CAI di Piedimonte Matese, i confini sono stati delimitati. Questa punta adesso è stata dedicata a lei, prematuramente scomparsa, "Punta Giulia", la cima più alta della Campania.
Adesso inizia la lunga discesa che mi riporterà di nuovo al lago, fino al traguardo.
Dopo un paio di chilometri di discesa in un fitto bosco, all'improvviso, gli alberi si diradano e si materializza il Pianellone, un immenso prato circondato dal bosco, fiori di campo a perdita d'occhio, mucche al pascolo e, più distanti, una coppia di cavalli ed un cavallino.
Lascio il Pianellone e corro in discesa spedito, in silenzio, ascoltando il suono dei campanacci ed il rumore dei miei passi sull'erba secca. In alto le nuvole circondano alcune cime delle montagne come sbuffi di ovatta candida. Si sopporta ancora bene il caldo però giù dalle montagne il sole è bello tosto e sono completamente esposto alla sua calura.
Sono quasi alla fine della mia corsa e rivedo il lago, con le sue acque lisce, quasi impalpabili. Una barca scivola leggera sul piacere delle acque, così come il tacito volo di un rapace evanescente.
Una sensazione di leggerezza mi invade, di liberazione, soprattutto quando mi appare il simbolo del traguardo finale che annuncia che la mia corsa è finita come lo spettacolo che solo questo posto può offrire.


'Sir' Ettore Golvelli insieme alla leggenda dell'Ultratrail Marco Olmo (foto L. Capobianco)

'Sir' Ettore Golvelli insieme alla leggenda dell'Ultratrail Marco Olmo (foto L. Capobianco)

Gara: MateseSky Race (21/07/2019)

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