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Pietro Mennea: un uomo, un campione
di Marco Tomassini, 21/03/2013

Avevo 14 anni e due pensieri fissi in testa: il primo era Letizia una splendida ragazza bionda di cui ero perdutamente innamorato e che ovviamente non mi degnava di uno sguardo; il secondo era l’atletica leggera che oltretutto aveva anche lo scopo di alleviare le pene d’amore.

Avevo iniziato a seguire l’atletica, alle Olimpiadi di Tokio, nel 1964, all’età di 7 anni ed ero rimasto affascinato da tutta questa gente che correva, saltava, lanciava e marciava e naturalmente il mio primo eroe era stato Abdon Pamich.

Nel 1971 sapevo a memoria tutti i record italiani, europei e mondiali all’aperto e al coperto dell’atletica ed era anche l’anno degli europei di Helsinki. Così da buon fissato mi ero piazzato davanti al televisore ed è lì che tra un Arese oro nei 1500 e un Fiasconaro argento sui 400, vedo per la prima volta Lui, il più grande atleta e uomo dell’atletica italiana: Pietro Mennea.

Rispetto agli atleti dell’Est era uno scricciolo, non gli avresti dato una lira. Invece in quegli europei iniziò la sua straordinaria carriera, 6° sui 200 e bronzo nella staffetta.

Poi un crescendo continuo, 5 Olimpiadi fatte con un oro e un bronzo nei 200, Record Mondiale, record europei e gare tutte di altissimo livello. Dominatore assoluto nei 200 per un lungo periodo di tempo, forse il più grande duecentista di tutti i tempi fino all’arrivo di Bolt.

Ma Mennea non era solo un grandissimo campione era anche un grande uomo.

Laureato 4 volte, combattente anti doping e perciò emarginato insieme ad altri come lui dal mondo sportivo, mentre atleti dal passato dubbio accumulavano cariche sia nel mondo sportivo che politico.

Adesso quello stesso ipocrita mondo sportivo che lo ha emarginato lo celebrerà come grande campione lasciando da parte le sue idee sullo sport come scuola di vita, sullo sport come educazione alla vita e noi della Podistica aggiungiamo come Solidarietà.

A me piace ricordare quello che Mennea raccontò in un intervista radiofonica di quando a 15 anni i suoi amici di Barletta lo andarono a chiamare a casa perché avevano scommesso che lui avrebbe battuto una Porsche sui 50 metri e vincendo quella sfida si pagò il cinema.

Ricordo la grande emozione di quando andai a Rieti al Meeting nel 1980, soprattutto per Lui, e lo vidi da vicino. O quando l’anno scorso allo Stadio dei Marmi, dove avevo accompagnato mia figlia ad allenarsi, vidi passare con la coda dell’occhio una persona con una giacca a vento su cui era scritto - Città del Messico – 19”72 -.

Era andato a trovare i ragazzi della Scuola di Atletica della FIDAL salutandoli uno ad uno.

Quando capii chi era quella persona che indossava quella giacca a vento rimasi a bocca aperta dall’emozione e tale restò fino a che mia figlia che aveva finito gli allenamenti venne da me e disse “Papà puoi ricominciare a respirare è andato via”.

Questo è forse il mio ricordo più bello oltre al famoso dito alzato a Mosca. Sarà che Mennea mi ricordava anni in cui avevo qualche dolorino in meno o sarà che gli atleti adesso preferiscono scorciatoie più o meno lecite invece dei carichi di lavoro a cui si sottoponeva il grande Pietro, ma una cosa è certa quella Atletica che lui rappresentava è finita per sempre.

Un abbraccio a tutti da un orange appassionato.

Marco Tomassini




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